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Città sommersa
- EAN: 9788845299421
«La leggenda tenta di spiegare l’inspiegabile», scrive Kafka in Prometeo, «e dal momento che proviene da un fondo di verità, deve finire nuovamente nell’inspiegabile».
Pare avere simile origine la fiamma che illumina la Città sommersa (Bompiani, 2020) di Marta Barone, scrittrice torinese già autrice di libri per ragazzi, che al suo esordio nella narrativa “adulta” si assesta tra i dodici semifinalisti del Premio Strega. Spiegare l’inspiegabile è, del resto, l’intenzione arcaica di ogni storia, come ben sanno i due protagonisti di questo romanzo, ovvero Marta, figlia, trentenne e voce narrante, e Leonardo Barone, padre, defunto, e oggetto dell’indagine. Perché se è vero che tutti i romanzi sono, in qualche modo, dei romanzi gialli, ne la Città sommersa quello dell’investigazione si impone come corso d’acqua principale da cui si dipanano i diversi effluenti dell’indeterminatezza del ricordo, dell’inattendibilità della parola, dell’ineffabilità dell’essere umano.
Tutto ha inizio con il ritrovamento, da parte di Marta, delle carte di un processo riguardante il padre, condannato e poi assolto per partecipazione a banda armata nella Torino tumultuosa del periodo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Si apre così uno spiraglio inedito sulla vita passata di Leonardo Barone, quella vissuta prima della nascita della figlia, una vita sommersa di cui Marta sa poco o niente ma che, nonostante gli avvertimenti della madre («I fatti. Non saranno mai i fatti, lo sai, vero?») e per un semplice quanto indomabile «atto di interesse», sembra del tutto intenzionata a riportare a galla nell’ambizioso, forse vano tentativo di rispondere alla domanda: chi era Leonardo Barone?
È questa l’occasione, oltre che per l’innesco del romanzo, anche per la prima apostrofe al lettore («Tu che ben conosci i manuali di scrittura, smaliziato lettore, avrai già individuato il fucile appeso alla parete nel primo atto del dramma») che rende sin dalle prime pagine esplicita, e lo sarà sempre di più, l’intenzione artistica dell’autrice: la Città sommersa non è un’autobiografia, né una biografia; non è un memoir e non è una ricostruzione storica degli anni di piombo. Ma cos’è, dunque, questa “città sommersa”? Per raccontarlo, si proceda con la storia.
La vita di L. B. (così prende a nominarlo Marta nel tentativo di plasmare quello «sfuggente personaggio», quella «figura autonoma» scissa dall’uomo che aveva conosciuto) riemerge tra testimonianze inattendibili e logori atti processuali, frammenti di articoli di giornale e fotografie ingiallite. Tra le pagine del libro, un po’ come nei grandi romanzi, macrostoria e microstoria si intrecciano, la prima finendo per travolgere inevitabilmente la seconda.
Dalle acque torbide dei confusi, furenti, oggi quasi incomprensibili anni ‘70 – in cui ci si immerge con lo sguardo distaccato e critico che solo cinquant’anni di storia vissuta alla velocità della luce, oltre che al passaggio di due generazioni, consentirebbero – affiorano quindi i difetti e le contraddizioni di un uomo (un padre inadeguato, spesso svagato, «la parodia di un adulto»), ma anche i suoi pregi e le sue qualità, come quel «fuoco violetto» di cui chiunque l’abbia conosciuto tenta di afferrare la consistenza, una sorta di «grandezza» che interseca carisma e generosità, una «luce incantatoria» che finisce per illuminare, a distanza di anni, la stessa figlia, adesso portata, quasi costretta in molti passaggi a chiedersi come accidenti fosse possibile che il frequentatore di quegli ambienti fosse proprio suo padre, lo stesso L.B. che lei aveva conosciuto, o pensato di conoscere.
Con una sensazione di straniamento parallela a quella dell’autrice, il lettore, se afferente alla generazione dei millennials, potrà quindi chiedersi, scorrendo le pagine e scoprendo dettagli distopici della storia italiana recente che forse gli sfuggivano, “ma davvero tutto questo è successo?” Se appartenente invece alla generazione che quei fatti li ha vissuti in prima persona, e che forse, per un naturale meccanismo di autoconservazione, ha rimosso dalla sua memoria, potrà interrogarsi: “ma davvero eravamo così?”
Tuttavia, come si è detto, l’intenzione di Barone non è certo quella di scrivere un saggio storico. Ad apparire luminosa, pagina dopo pagina, è infatti la portata letteraria del romanzo: tra l’alternarsi di registri (giuridico, giornalistico, burocratico), emerge lo stile personale dell’autrice che, nel succedersi di ricordi, indagini, citazioni, rivela un sapiente uso della parola, assestando qua e là picchi formali che permettono alla storia di trascendere dalla realtà, dalle strade travolte dalle proteste, dal grigiore dei palazzi, dallo scorrere rosso del sangue; tra questi, una menzione speciale meritano le incursioni dell’autrice tra le parentesi in cui, a dispetto del loro apparente significato marginale, si insinuano snodi e riflessioni fondamentali.
E dunque: cos’è La città sommersa di Marta Barone? È certamente una lunga, tenera, lucida riflessione sull’ineffabilità del passato, sull’evanescenza delle nostre vite, sull’impossibilità di resuscitare gli istanti e i loro protagonisti, i loro pensieri, le loro voci. È il tentativo di fare luce sulle zone d’ombra, gli enigmi, i misteri dechirichiani che avvolgono i protagonisti, i loro corpi smaterializzati nei luoghi che hanno frequentato, gli odori spazzati via dal vento, i volti incastrati in foto che forse qualcuno conserverà, ma forse no, dato che questo è il destino delle vite degli uomini, ovvero quello di finire, di essere, forse, ricordate e, se si ha la fortuna di avere una figlia scrittrice, magari anche scritte.
«La leggenda tenta di spiegare l’inspiegabile», scrive Kafka in Prometeo, dopo averci però spiegato che di quest’ultimo, e di tutte le sue storie, non era rimasta che «l’inspiegabile montagna rocciosa» in cui si dice fosse stato incatenato. Ma quella montagna esiste perché esiste la sua storia, così come, del resto, scrive Barone: «Il libro esiste perché non c’è più l’uomo».
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